ARIZONA - HOSTERIA DEGLI AVIATORI

Prima che questa “trattoria”, al limite dell’Aeroporto di Campoformido, avesse l’insegna che promette la malia dell’avventura, era una casupola con il solo pianterreno e s’accontentava del nome modesto di Osteria al Campo.

 

Ampliata e abbellita, prese subito quota, a cominciare dalla cucina, che col profumo della polenta sedusse persino Italo Balbo e il suo Stato Maggiore, come attestano alcune firme incorniciate nella sala d’ingresso.

 

Il proprietario, da parte sua, è fiero di servire i soldati dell’arma alla quale ha appartenuto. Per la verità, sono stati i commilitoni a suggerirgli l’ampliamento della casa e a battezzarla con la canzone che le belle ragazze sospirano ancora, lungo la strada napoleonica.

 

E basta che le lettere cubitali dell’insegna le salutino da lungi, o che i loro occhi inseguano nell’azzurro la scia d’un aeroplano, per sentirsi capinere: tema che sorvoleremo, ad evitare gli atterraggi nei campi di fortuna. 

Fermiamoci invece nel recinto del campo regolare, dove assai prima che Gigi Covre pensasse all’osteria, gli Ufficiali avevano allestito una stanza che sa di intimità, con i mobili austeri, le ceramiche colorate e il caminetto a muro, su cui gli alari e il paiolo di bronzo richiamano la poesia del focolare friulano. Persino un piatto, sopra la credenza policroma, ripete l’invito:

 

Culì al è ben vignût ognun ch’al rive, ma no l’è lûc di fermative.

 

Alle pareti, le caricature degli Ufficiali: volti glabri, labbra tumide, nasi aquilini, berretti sulle ventitré, capelli al vento.

 

Tra essi taluno che non è più: una nota di malinconia subito fugata dal tintinnio dei bicchieri, o da una celia improvvisa.

 

Gli aviatori sanno staccarsi dalla terra con fulmineo abbrivo e sorridere alla morte con confidenza: i caduti rivivono nel rinnovarsi dei loro ardimenti.

 

Anche i Sottufficiali hanno un ritrovo, di stile «900», nel quale Emilio Caucigh ha preferito inquadrare vivaci aeropitture su cieli di cobalto.

 

Qui luce diffusa, sentore di ARIZONA.

 

Ma la “trattoria” di questo nome è sempre la preferita, per il vino bianco che accompagna i panini al prosciutto, per la folla dei curiosi che vi sosta, per la sorpresa degli incontri.

 

Ecco giungere, a brevi intervalli, alcuni Piloti civili, i quali hanno coronato la passione sportiva con il loro recente battesimo del volo e col rito in uso quaggiù: un simposio offerto dal neofita prima di cimentarsi alla prova del brevetto; un secondo, più copioso, a volo compiuto.

Gli anziani, a titolo di gratitudine, allungano per turno un pugno sul casco dell’offerente, al grido: «Ghereghéz, ghez, ghez!»

 

Che cosa voglia dire quel grido, nessuno sa, tanto meno colui che si sente rintronare la scatola cranica sotto la scarica rituale.

 

E guai a lui se sarà incorso in un “bum”, cioè in un atterraggio a base di colpi di coda sul campo; non gli resterà che attenuare la vergogna alleggerendo il portafogli, e assoggettarsi all’immancabile valanga dei frizzi.

 

C’è anzi chi ne è inseguito fino al momento che sta per partire e, quasi non bastassero le parole burlesche, deve portare nella carlinga un cartello réclame di vini di marca: chiaro ammonimento di prepararsi allo scotto.

 

Ma il velivolo rulla e decolla con manovra impeccabile, libellula d’argento già in linea di volo.

 

I rimasti si chiedono ridendo: «Gli passerà liscia, questa volta?» Ma anche lui, il Pilota, se la ride mentre sorvola macchie rosse di tetti, macchie verdi di prati, striature di strade, scacchiere di campi, venature d’acqua.

Picchiata a spirale, rullaggio da esperto.

 

L’elica frulla nell’ansito degli ultimi giri.

 

Il novellino è a terra, lieto di cedere il posto all’Istruttore che sta per sottoporre all’emozione del volo una signora inguainata nella tuta, il caschetto intorno al viso cui non è mancato l’ultimo disinvolto ritocco di cipria.

 

- Il primo volo, signora?

- Si...

- È come il primo bacio.

- Allora non farà male...

 

Il colloquio è spezzato dal rùgghio dell’elica: di due, di cinque, di dieci eliche.

 

Tutto il campo è un rombo.

 

Gli apparecchi rullano, decollano, s’allontanano contro il sole declinante, virano saettando balenii metallici; spariscono, riappaiono alti, nell’ebrezza di loopings perfetti; avanzano come gru in formazione di cuneo; danno saggio di acrobazie rabbrividenti.

 

Spettacolo superbo che esalta chi vi partecipa e chi lo gode, dall’osservatorio dell’ARIZONA.

 

A questo punto occorre sapere che il bravo Gigi non detiene soltanto le chiavi della cantina, ma i registri e i bollettari della R.U.N.A. di Udine, e conserva gli indumenti di volo dei Piloti, e persino un gabinetto da toletta per le signore; per tutti, poi, gli aperitivi e una cucina dove il girarrosto è quasi sempre in movimento.

Tutti i mezzi, egli pensa, sono buoni per infondere fiducia nell’aviazione.

 

Ma che ci voglia poi tanto coraggio a volare? Domandiamolo alla passeggera che ha superato la prova con compostezza tale da rendere inutile un ulteriore ritocco del suo visino da bambola.

 

- E allora?

- Proprio come il bacio: un volo tira l’altro.

 

Consumato al banco il rito di prammatica, riprendiamo la via del ritorno.

 

All’improvviso il cielo è ferito dall’urlo del «bolide rosso», un aeroplanino che consentirebbe al Pilota di mettere il giusto intervallo tra il «Campari» all’ARIZONA e gli «agnolotti» a Torino.

Tratto dal notiziario del “Circolo della P.A.N.” Anno XIII n° 25 - 1 marzo 2013 - pg. 15-19